Lettera di Enzo Mazzi per il 30 maggio 2011

Carissime e carissimi,
consentitemi il tono confidenziale per questo messaggio richiestomi da Bruna. La mia confidenzialità però esprime forse il motivo di fondo di questo essere insieme, al di là di tutti gli obiettivi: “amarsi reciprocamente”. Mi verrebbe da aggiungere gli appellativi con cui Giorgio La Pira negli anni ‘50-’60 ci salutava quando amava partecipare agli incontri di accoglienza e solidarietà che si svolgevano periodicamente proprio qui in questi locali dove vi trovate. Entrando con quel sorriso ammiccante e con quell’aria ispirata, allargava le braccia ed esclamava: “carissimi fratelli, amici, compagni e, se ce n’è, camerati”. La prendevamo come una giullarata. Ed era invece una intuizione profetica, anticipatrice di tempi in cui sarebbero cadute o almeno svanite le atroci contrapposizioni ideologiche e di appartenenza.

E così mi sono in qualche modo introdotto nei temi su cui vi proponete di riflettere, a seguito della lettera alla Chiesa fiorentina che ho apprezzato e sottoscritto senza riserve: Come ritrovare quel modello di Chiesa dei poveri, libera dal potere per l'annuncio del Vangelo, indicato nel Concilio?

Quali resistenze da superare e quali vie da percorrere per realizzare una Chiesa plurale e sinodale?

Il senso delle religioni per la nostra vita, per l’alimento dei valori sui quali vogliamo impostarla, spenderla, trasmetterla alle giovani generazioni, è condizionato a un cammino di profonda trasformazione in cui il pluralismo e la libertà dalla ricchezza e dal potere sono elementi fondamentali. È questa la nostra esperienza di comunità cristiane di base da molti anni. Il dominio delle istituzioni costituite, dei dogmatismi, dei fondamentalismi, degli ordinamenti di appartenenza totalitari, imprigiona le tradizioni religiose, le mummifica, le rende inservibili per alimentare il senso della vita. Le religioni, testi, riti, orizzonti di fede, orientamenti etici, ruoli, così imbalsamati e imposti dall’alto, dalle cattedre dei guru, dai troni di caste teocratiche, non solo non ci servono, ma sono ostacoli ai nostri cammini e alla rete delle relazioni interpersonali e sociali. È per questo che molte persone si sbarazzano totalmente delle religioni. La laicità radicale, completamente estranea ad ogni elemento di religiosità, è un’opzione pienamente legittima e rispettabile, ci mancherebbe. Ma così facendo viene gettato il bambino con l’acqua sporca. Dove il bambino è la vitalità generativa, la forza esplosiva, la densa saggezza umana, delle esperienze profetiche da cui le religioni nacquero e che nella storia hanno preso due strade opposte: una la strada del connubio col potere, l’altra la strada della resistenza sotterranea negli anfratti della grande storia intrecciandosi con le culture negate e con i processi di trasformazione dal basso.

Basta pensare, solo per fare un esempio, al ruolo che ebbe nella genesi storica primordiale del proletariato la riscoperta dei valori di liberazione del vangelo da parte dell’iniziale movimento francescano, i fraticelli. Il tumulto dei Ciompi – afferma lo storico Niccolò Rodolico - s’iscrive nella storia del lavoro e degli operai come evento generativo di un processo storico che dal Medio Evo giunge all’età nostra: “è la prima volta, in cui si forma e si afferma una coscienza operaia con un proprio programma che si vuole inserito in un ordinamento politico… La coscienza operaia che venne formandosi … ebbe turbamenti e fermenti rivoluzionari, che non traevano origine e stimoli da fatti economici, sebbene da sentimenti religiosi, sui quali agirono idee ed eresie del mondo francescano”.(I Ciompi, Sansoni, Firenze, 1945). (I Ciompi, Sansoni, Firenze, 1945). Forse il Rodolico si è fatto prendere un po’ la mano, fin quasi a sembrar escludere che i fermenti rivoluzionari traessero origine da stimoli e fatti economici. È da ritenere però valida la tesi di fondo: trasformazione spirituale-religiosa e trasformazione economica-sociale-politica si alimentavano a vicenda nelle rivolte popolari del nascente proletariato, nell’Europa del trecento (cfr. Raoul Manselli, Religiosità e rivolte popolari nell’Europa della seconda metà del trecento, in AA. VV. Il Tumulto dei Ciompi, Olschki, Firenze 1981).

I dissidenti francescani denominati "fraticelli" o "bizocchi" o "fratres de paupere vita" che nel XIV-XV secolo ripudiarono il carattere autoritario e oppressivo dei poteri nel sistema di dominio medioevale, compreso il potere ecclesiastico, furono portatori in mezzo alle masse popolari di tutta Europa di una spiritualità basata sul valore della povertà, della semplicità, della piccolezza, della fraternità fra poveri, vivendo e predicando un cristianesimo “ribelle” verso tutte le forme di alienazione e di dominio. Una tale spiritualità aveva fatto breccia nella coscienza dei protagonisti dei moti popolari europei del trecento, e in particolare di quelli fiorentini e toscani, combinandosi col bisogno di riscatto e di liberazione dal dominio che scaturiva dalle condizioni economiche e sociali insostenibili. La povertà assoluta dei ‘fraticelli’ non era una questione tutta interna all’Ordine francescano connessa con l’interpretazione della regola, ma era soprattutto fedeltà al messaggio di liberazione anche materiale del Vangelo che li induceva alla solidarietà concreta con le condizioni di vita, con le aspirazione e con le lotte del popolo minuto.

Gli stessi frati che a differenza dei fraticelli accettano il compromesso con la vita conventuale sono indotti a impiantare i loro conventi negli inferni urbani periferici dove si concentrano gl’insediamenti e i luoghi di lavoro dei poveri. A Firenze, il convento francescano di Santa Croce sorse nel malsano borgo dei Tintori, vicino alle casupole dei lavoratori della potente Arte della Lana e vicino ai luoghi dove venivano eseguite le condanne a morte. E questo vale anche per altri Ordini mendicanti che per realizzare conventi, lebbrosari, hospitalia, scelsero quelle che allora erano periferie desolate, abitate da gente di infima condizione, sede dei mestieri considerati più ripugnanti, caratterizzati da condizioni di vita malsane: Domenicani a San Marco e a Santa Maria Novella, Servi di Maria alla SS. Annunziata, Agostiniani a Santo Spirito, Carmelitani al Carmine. Questo era lo spirito del tempo. Era il vivere “coi poveri e come i poveri”. Poi, nel giro di pochi anni, tutto cambiò e i conventi in breve si trasformarono in un nuovo potente potere urbano. Più a lungo i fraticelli restarono fedeli allo spirito del Vangelo della liberazione e al cristianesimo “ribelle” verso tutte le forme di alienazione e di dominio (cfr. Firenze crocevia di culture, ed. Polistampa, Firenze 2010).

Al tempo stesso le folle dei diseredati, oppressi e sfruttati in modo brutale prendevamo coscienza del valore anche morale ed evangelico delle loro aspirazioni e delle loro lotte e questo li aiutava a divenire soggetti storici.

Non a caso i Ciompi nel IV secolo chiamarono “Popolo di Dio” il popolo minuto che si sollevava. Popolo di Dio e non popolo di qualche Signore o Arte o Corporazione. E “Arti del popolo di Dio” o “Arti populi minuti sive populi dei” sono chiamate nei documenti del tempo le tre nuove arti che furono costituite nel breve tempo del governo dominato dai ciompi al potere, luglio-agosto 1378: l’Arte degli scardassieri, che erano i veri e propri ciompi, l’Arte dei Farsetti e l’Arte dei Tintori. La costituzione di queste Arti del popolo minuto autonome dalle Arti ufficiali dominate dall’oligarchia fu la prima e più importante vittoria della lotta del nascente proletariato.

Quello dei Ciompi è solo un esempio fra tanti.

E oggi, fra i due atteggiamenti di massa, cioè l’adeguamento passivo alla religione di chiesa e il rifiuto totale di ogni senso di religiosità, ci sono minoranze, sia colte sia popolari, fra cui le comunità di base, che hanno scelto la strada della ripresa della resistenza sotterranea dei valori religiosi generativi negli anfratti della grande storia intrecciandosi con le culture negate e con i processi di trasformazione dal basso.

Per concludere possiamo dire che l’attualità delle religioni in relazione alla nostra vita è legata in gran parte a un profondo processo di trasformazione. Lo stesso vale per il futuro delle religioni, di tutte le religioni ma in particolare del cristianesimo. Senza radicale trasformazione le religioni istituite sono destinate a sopravvivere come puro folklore.

Ma qui occorre un decisivo approfondimento critico. Bisogna rendersi conto che per una vera profonda trasformazione non bastano le idee o le parole. Ci vogliono le idee nuove, ci vogliono le parole nuove. Ma non sono sufficienti da sole. Le idee cambiano le idee e non necessariamente la prassi. Le parole a loro volta da sole possono anche servire a coprire più o meno ipocritamente una sostanziale continuità, anzi a ribadirla.

Idee nuove, parole nuove non devono restano nei circoli intellettuali e nei libri, ma si devono incarnare in tutti gli aspetti della vita pratica aprendo cammini nuovi e al tempo stesso antichi perché alimentati appunto alle esperienze e ai valori della religiosità generativa, liberata dal dominio della religione di chiesa o di apparato.

Ha ragione il sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di religione vanno sottratti all'abbraccio mortifero della religione-di-chiesa, burocratica e gerarchicamente autoritaria.

Ma come? Senza scatenare conflitti distruttivi? Sono gli interrogativi di fondo che ci poniamo nella lettera alla Chiesa. I quali non sono cahiers de doléances in una monarchia assoluta ma piuttosto indicazioni di ricerca di un Popolo di Dio regale che esiste da sempre nella Chiesa come asse portante anche prima che il Concilio codificasse la sua centralità. Per trovare risposte non basta guadare avanti. Occorre anche rompere la vera e propria damnatio memoriae a cui sono condannate le esperienze che in passato hanno aperto varchi e tracciato sentieri. Perché la memoria è creativa, generativa di presente e di futuro. È eucarestia.

La crisi che stiamo vivendo è il frutto di un vuoto di civiltà creato da una strategia repressiva globale e mondiale, talvolta feroce e sanguinaria, attuata in ogni settore della società nel dopoguerra.

Giunti come siamo in vista del fondo di un baratro occorre forse recuperare attraverso la memoria, l’anima sociale della Chiesa dei poveri che ha resistito alla strategia dell’annullamento nella miriade di esperienze soprattutto di base che hanno continuato a vivere e svilupparsi creativamente in tutto il mondo, specialmente negli anfratti della cosiddetta "grande storia".

C’è un malessere diffuso nella Chiesa a livello mondiale per questa sete sempre crescente di danaro e di potere della struttura ecclesiastica. Le utopie e le speranze di una riforma della Chiesa che ponesse a fondamento il suo essere evangelicamente “Chiesa dei poveri” non sono finite con la terribile repressione che si è abbattuta su di loro nel dopo-Concilio. Non erano affatto sogni impossibili di anime belle. Erano in realtà esperienze concrete capaci di moltiplicarsi, di contagiare l’ambiente ecclesiale e di favorire finalmente una svolta nella gestione del potere della e nella Chiesa. La personalità più prestigiosa di questo orientamento è certamente il cardinale Giacomo Lercaro arcivescovo di Bologna. Il quale fece tremare le volte della basilica di San Pietro in un memorabile intervento durante l’assise conciliare sulla necessità urgente di passare dalla medioevale concezione della “Chiesa per i poveri” all’immagine evangelica della “Chiesa povera e dei poveri”. La pagò cara. Nel 1967 fu costretto a dimettersi dalla diocesi di Bologna. Molti altri vescovi, preti, fedeli animatori della “Chiesa dei poveri”, subirono negli anni la stessa sorte. Alcuni in America Latina persero la vita. Mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador ne è un esempio. L’utopia concreta e creativa s’ingrottò. E fu guardata con sospetto per anni fino ad oggi. Ma io vi sto dicendo cose che sapete meglio di me. Scusatemi.

È l’ora che ci muoviamo per farla riemergere questa utopia creativa.

Ognuno dalla collocazione in cui si trova. Chi più interno all’appartenenza ecclesiale, forse con maggiori accortezze, chi più libero di sperimentare perché sulla frontiera, con più libertà. Ma tutti e tutte in atteggiamento di accoglienza reciproca e di sostegno vicendevole oltre ogni pregiudizio.
Enzo Mazzi
Firenze 26 maggio 2011

Nessun commento: